Rivista online registrata
ISSN 1974-5044

Per contribuire: redazione@syzetesis.it
 
 
Si accettano articoli, saggi e recensioni in Italiano, Inglese, Francese, Tedesco e Spagnolo. Tutti i contributi (a eccezione delle recensioni) prima della pubblicazione vengono sottoposti in forma anonima ad almeno un referee

 

 

Eternità e fine del tempo ne La fine di tutte le cose di I. Kant

 

 

articolo di Luca Cirese

scarica in formato pdf

 

Di seguito sono elencati in ordine cronologico i testi di Kant utilizzati (citati nella prima e/o seconda edizione, rispettivamente con la sigla A e la sigla B, seguita dalla paginazione originale o da quella dell'edizione AA) e le varie abbreviazioni usate:

Bem. = Bemerkungen zu den Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen 1764-8, in AK  XX; trad. it. in I. Kant, Bemerkungen, a c. di K.Tenenbaum, Meltemi, Roma, 2001.

TräumeTräume eines Geistersehers erläutert durch Träume der Metaphysik,1766 in AA II; trad. it. in SP pp. 347-407.

Diss. = De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, 1770, in AA II; trad. it. in SP pp. 419-461.

Prol. = Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können 1783, in AA IV; trad. it di P. Carabellese, Laterza, Roma-Bari 2007

IaG = Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784, in AA VIII; trad. it. in SPD, pp. 29-44.

GMS = Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, 1785, in AA IV; trad. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma – Bari, 19971 20096

KrV = Kritik der reinen Vernunft, in AA III (secondo le edd. «A» o «B»); trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino, 1957.

KpV = Kritik der praktischen Vernunft,1788in AA V (citata secondo l’ed. «A»); trad. it. di F. Capra, rivista da E. Garin, Bari, 1955.

KdU = Kritik der Urtheilskraft,1790,in AA V (citata secondo l’ed. «B»); trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999.

Rel. = Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft,17931; 17942in AAVI trad.it. A.Poggi, riv. da M.M.Olivetti, Laterza, Roma – Bari, 1980.

TP = Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht fur die Praxis, 1793 in AA VIII; trad. it. in SPD, pp. 123-161

EaD= Das Ende aller Dinge, 1794 in AA VIII; trad. it. di Giuseppe de Flaviis, in I. Kant, Scritti  sul  criticismo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 241-254; si è tenuto conto anche della edizione - a cura di Andrea Tagliapietra - I. Kant, La fine di tutte le cose (1794), Bollati Boringhieri Torino 2006

OP = Opus Postumum in AA XX-XXI; trad. it. di V. Mathieu, Bologna 1963.

MdSMetaphysik der Sitten, 1797, in AA VI; trad. it. di G. Vidari, riv. da N. Merker, Laterza, Roma – Bari, 19831 20069.

Antr. = Antropologie in pragmatisher Hinsicht,1798, in AA VII; trad. it. di G. Vidari, riveduta da A. Guerra, Roma-Bari 1985.

SFDer Streit der Fakultäten, 1798, in AA VII; trad. it. in SFR, pp. 229-308.

LogikLogik,1800 in AA IX; trad. it. Di Leonardo Amoroso, Roma-Bari 19841 20106

SFR = I. Kant, Scritti di filosofia della religione,a c. di G. Riconda,Mursia Milano 1989

SP = I. Kant, Scritti precritici,  Laterza Roma-Bari 19821 20003

SPD = I. Kant, Scritti di storia, politica, e diritto, a c. di F. Gonnelli, Laterza, Roma–Bari 1995.

R  = Reflexion tratta da AA XVII-XVIII

AA = Kants Gesammelte Schriften, hrsg. Von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaft, Berlin, 1902 ss., oggi Walter de Gruyter & Co Berlin 19681 20032

Ep. = I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, in AA X-XII; a cura di Oscar Meo. Il Melangolo Genova 1990.

L'abbreviazione “t.m.” sta per “traduzione modificata” dall'autore o in base ad altre traduzioni.

 

Nel suo scritto La fine di tutte le cose (Das Ende aller Dinge), uscito nel giugno del 1794 sulla  rivista illuministica Berlinische Monatsschrift[1], Kant tenta di ripensare criticamente il problema della fine del mondo cioè della Apocalisse[2]. Mediante una lettura analitica del testo si cercherà da una parte di comprendere il rapporto che si instaura fra tempo e eternità a partire dalla caratterizzazione della seconda; mentre dall’altra si esporrà la problematica antropologica, sviluppata a partire dalla posizione della domanda sulla fine di tutte le cose. Si seguirà poi la trasformazione pratica del concetto di fine di tutte le cose, che Kant esplicita nel seguito dell’argomentazione, riflettendo su questa impostazione sviluppata soprattutto nelle opere maggiori – Critica della ragione pratica (1788), Religione nei limiti della sola ragione (17931; 17942) e Opus Postumum. Infine, grazie a questa trasformazione, si analizzeranno le tre possibili fini di tutte le cose che Kant ottiene mediante il rapporto che questo concetto instaura con la nostra facoltà conoscitiva, cioè quella naturale, quella mistica e quella antinaturale.

Nel linguaggio devoto, esordisce Kant, si attribuisce a un uomo che muore l’affermazione «io passo dal tempo (Zeit) all’eternità (Ewigkeit[3]. Affermazione priva di senso, per il filosofo, se si considera l’eternità come durata infinita. Se entrambi infatti sono definiti come durata (Fortdauer)[4] – il tempo «ha una sola dimensione: tempi differenti non sono simultanei, ma successivi [nach einander[5], l’eternità è «un’esistenza [Daseyn] con tutta la durata [Dauer[6] – allora questa può essere distinta dal tempo, solo se  perde il carattere qualitativo della successione, ovvero solo se non è «limitata infinitamente dal non essere»[7]; se fosse altrimenti «l’uomo non uscirebbe infatti mai dal tempo, ma si limiterebbe a passare da un tempo ad un altro»[8]. L'eternità deve essere dunque intesa come fine di ogni tempo, nella quale però persiste l'uomo inteso come «una grandezza [durata] totalmente incommensurabile con il tempo»[9] e della quale possiamo farci un concetto solo negativo[10] in quanto non oggetto di una intuizione sensibile (essendo per definizone atemporale); definita in tal modo tale grandezza, essa è dunque un Grenzbegriff (concetto limite), cioè rende pensabile la forma del tempo nei suoi termini determinati[11]. Essa va intesa cioè come un limite e non come un confine. Possiamo comprendere questa caratterizzazione grazie alle seguenti definizioni riportate nei Prolegomeni:

i limiti (Grenzen) (in un essere esteso) presuppongono sempre uno spazio, che si trova fuori di un certo determinato luogo e lo racchiude; i confini (Schranken) non hanno bisogno di ciò, ma sono semplici negazioni che affettano una grandezza (Grösse), in quanto non ha completezza assoluta. La nostra ragione vede, per così dire, intorno a sé uno spazio (Raum) per la conoscenza delle cose in sé, sebbene non  possa mai averne concetti determinati e sia confinata soltanto entro i fenomeni. Finché la conoscenza della ragione è omogenea non possono pensarsi limiti determinati. Nella matematica e nella scienza naturale la ragione umana conosce certo dei confini ma non dei limiti, cioè che certo, v’è fuori di essa qualcosa, a cui essa giammai può arrivare, ma non conosce mai se stessa, dovechessia completa, nel suo interno progresso[12].

Tale grandezza (Grösse) viene definita da Kant come «duratio noumenon»[13], al fine di intendere l'eternità non come una Unding (cioè oggetto vuoto senza concetto, in quanto questo è contraddittorio) ma come un vuoto concetto senza oggetto (cioè un noumeno)[14].

Il problema di questo passaggio dal tempo all'eternità, che Kant rileggerà dal punto di vista pratico come bisogno della ragione pura pratica, deriva dalla stessa distinzione che Kant ha compiuto, a partire dalla rivoluzione copernicana, tra fenomeni e noumeni e dunque anche quella fra intelletto e ragione. Tuttavia la risoluzione pratica distingue questo problema del passaggio (Übergang) da  quello analogo ma risolto teoreticamente, cioè quello dai princìpi metafisici della scienza della natura ai principi della fisica che è reperibile l’Opus Postumum di Kant.

È interessante notare che, attraverso questa caratterizzazione della duratio noumenon, Kant rifiuti due possibili approcci sull'eternità: da una parte quello reperibile in Baumgarten, il quale definisce la eternitas come «duratio sine initio et fine»[15]; dall'altra con quello di Spinoza, che afferma:

intendo per eternità (eternitas) l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della solo definizione della cosa eterna.
Spiegazione: una tale esistenza, infatti, è concepita come una verità eterna alla stessa maniera dell’essenza di una cosa, e perciò non si può spiegare per mezzo della durata (duratio) o del tempo (tempus), anche se la durata sia concepita senza principio e senza fine[16].

Possiamo dire che Kant è distante allo stesso modo da entrambe queste formulazioni: da una parte rifiuta – come abbiamo visto nell'incipit di EaD - di considerare l'eternità come infinità del tempo sensibile (Baumgarten), dall'altra non accetta di non considerarla neanche durata, ovvero in assenza di un riferimento a una forma di temporalità senza successione (Spinoza); in altre parole se da una parte non vuole renderla fenomeno (a cui conseguirebbe la sua estraneità dal dominio pratico), dall'altra non vuole neanche renderla un concetto esclusivamente teoretico che trascenda il tempo: come vedremo, questa posizione di pensiero permetterà  a Kant di poter pensare l'idea di duratio noumenon come una idea pratica, ovvero finalizzata al perseguimento  del sommo bene da parte della ragione[17].

La ragione, dal punto di vista pratico, – continua Kant – pensa questo passaggio dal tempo all’eternità da una parte come «fine di tutte le cose in quanto esseri temporali (Zeitwesen) e oggetti di possibile esperienza», e dall’altra come «inizio di una durata […] di questi esseri [nell’ordine morale dei fini] in quanto esseri soprasensibili, e dunque non sottoposti alle condizioni temporali»[18], perché l’eternità, essendo un concetto limite noumenico, può darsi solo al di fuori del tempo. Di conseguenza l’unica determinazione possibile di essi è quella morale: in tal modo Kant identifica la fine del tempo con la fine di tutte le cose, le cui diverse possibilità verranno esplicitate nel seguito; questa riduzione dell’idea di eternità alla filosofia pratica (che verrà chiarita nel prosieguo) porta Kant a ridurre le immagini dell’Apocalisse di Giovanni[19] a semplici raffigurazioni sensibili (Versinnlichung) dell’ultimo giorno e delle sue conseguenze morali, in base all’argomentazione che esse portano all’assurdità che il giorno del giudizio non è l’ultimo.

Nel seguito Kant analizza i due sistemi riguardanti l’eternità futura. Da una parte il sistema degli unitari, dall’altra quello dei dualisti: il primo concede a tutti la beatitudine, il secondo solo ad alcuni. Dal punto di vista pratico prevale il secondo sistema (a patto però di  presupporre un unico essere originario buono), in quanto esso ha una utilità per il giudizio di ciascun uomo su di sé. Questo avviene perché «la speranza nell’eternità […è]quella che la sua coscienza [Gewissen] gli dischiude al termine della sua vita per la condotta da lui tenuta in passato»[20]. Entrambi i sistemi  non possono tuttavia essere trasformati in dogmi (cioè «un principio teoretico valido in sé (oggettivamente)»[21], in quanto nessun uomo si conosce sufficientemente per sapere il proprio carattere morale, del quale si è reso degno indipendentemente dalle circostanze; al rigurado Kant fa infatti riferimento alla fortuna (Glück), esplicitandola sia come circostanze favorevoli (assenza di tentazioni) sia come doni naturali (buon temperamento, prevalere delle facoltà superiori). Posta dunque la loro eccedenza rispetto alla nostra capacità speculativa, tali idee devono essere ridotte a «condizioni dell’uso pratico» (Bedingungen des praktischen Gebrauchs)[22] della ragione. È dunque solo il giudizio della nostra coscienza che ci illustra  il nostro destino nel mondo futuro, nel senso che ci mostra che i principi dominanti della nostra esistenza lo saranno anche dopo la morte, non avendo nessun motivo di ipotizzare un loro mutamento. Da ciò segue che è saggio agire «come se (al ob) né un’altra vita, né lo stato (Zustand) morale con cui cessiamo la presente, e neppure le conseguenze di quest’ultima, stabilite al momento di entrare nella futura, fossero suscettibili di cambiamenti»[23].

Kant, dopo aver ripensato il concetto di eternità prima dal punto di vista teoretico e poi risolutivamente di quello pratico, cerca di comprendere il motivo della perenne domanda sulla fine del mondo, il qual pensiero, come ha scritto nelle pagine precedenti, «deve essere strettamente connesso […] con la ragione umana universale, dato che lo si incontra, sotto varie forme, presso tutti i popoli usi a ragionare, e in tutte le epoche»[24]. Kant divide in due parti questa problematica, ponendo prima la questione del perché si attenda una fine del mondo e poi perché essa venga sempre rappresentata come evento terribile. Come risposta alla prima, Kant sostiene che è la ragione stessa a dire agli uomini che «il perdurare del mondo ha valore solo in quanto gli esseri razionali che sono nel mondo medesimo siano conformi allo scopo finale [Endzweck] della loro esistenza» perché se questo scopo non dovesse essere mai raggiunto, la creazione apparirebbe priva di scopo - «come un opera teatrale [Schauspiel] che non avesse un epilogo»[25]. Si possono a questo riguardo fare due osservazioni: innanzitutto si deve ricordare che la prima parte di questa argomentazione era stata sviluppata lungamente da Kant all’interno della Critica della Giudizio (1790); nei §§ 86-88 della “Dottrina del metodo del giudizio teleologico” si pone infatti il problema del reperimento di uno scopo finale (Endzweck) che possa dare valore (Wert) al mondo: esso, mediante l'eliminazione della felicità e della conoscenza del genere umano, viene ricondotto alla loro moralità. In secondo luogo che l’immagine dell’opera teatrale senza fine viene ripresa da Kant dal suo scritto dell’anno precedente Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale nella pratica (1793) in cui viene utilizzato per difendere la tesi di un progresso morale del genere umano contro la tesi dell’abderitismo[26] (secondo cui il progresso morale è solo individuale, mentre il genere umano passa indifferentemente dalla moralità al vizio) di Moses Mendelsshon affermando che questo spettacolo non sarebbe degno neanche dell’uomo più comune a condizione però che egli sia retto[27]. Più in generale, a parziale conferma del nesso fra tempo e ragione umana che viene trattato nella prima problematica, bisogna ricordare che Kant ha sempre sostenuto, fin dagli scritti precritici, che l’intelletto umano sia naturalmente propenso verso l’avvenire; questo infatti afferma il celebre passo dei Sogni, secondo cui la bilancia dell’intelletto non è del tutto imparziale:

Qualunque adesione o altra qualsiasi inclinazione insinuatasi prima dell’esame io non trovo che faccia perdere al mio animo la facoltà di essere piegato pro o contro princìpi diversi, se se ne eccettua una sola. La bilancia dell’intelletto non è pur del tutto imparziale, ed un braccio di essa, che porta la soprascritta, speranza per il futuro, ha un vantaggio meccanico che fa sì che ragioni anche leggere che cadono sul piatto retto da esso, traggano in alto dall’altra parte le speculazioni che abbian per sé peso più grande. È questa l’unica inesattezza ch’io certo non posso e che nel fatto non voglio neppur toglier mai[28].

Proseguendo la problematica antropologica, Kant risponde alla seconda parte del problema, ovvero del perché la fine del mondo venga rappresentata sempre come evento terribile. Ciò è fondato sull’idea di una natura corrotta del genere umano[29] che annulla ogni speranza. Di conseguenza «la sola misura che si convenga alla saggezza e giustizia suprema sarebbe (secondo la maggior parte degli uomini) di por fine allo stesso genere umano»[30]; è questo il motivo per cui i segnali che annunciano la fine del mondo sono tutti spaventosi: da una parte Kant si riferisce alla decadenza morale, dall’altra agli sconvolgimenti naturali (tra gli altri i terremoti: nonostante fossero passati poco meno di quaranta anni dal terremoto di Lisbona del 1o Novembre 1755, Kant evidentemente ricorda la reazioni degli uomini di chiesa di fronte all’evento). Secondo Kant, tale idea deriva dal fatto che essi avvertono «il fardello della loro esistenza, anche se essi stessi ne sono la causa»[31]; infatti «nei progressi del genere umano la cultura dei talenti, dell’abilità  e del gusto (con tutti gli eccessi che ne conseguono) va, in modo naturale, più in fretta dello sviluppo della moralità» e «questa situazione è […] per l’appunto la più molesta e più pericolosa tanto per la moralità quanto per lo stesso benessere fisico»[32]. Tuttavia, continua Kant, la disposizione morale dell’umanità (sittliche Anlage der Menscheit) riuscirà infine a superare la cultura (Kultur[33]) che «nella sua corsa precipitosa, s’impiglia e spesso incespica»[34]; dunque, in base alle prove d’esperienza sul primato nella nostra epoca della moralità[35], si può nutrire la speranza (Hoffnung) che l’ultimo giorno possa essere «l’assunzione di Elia» (Cfr. 2Re 2,11-13) piuttosto che la «discesa agli Inferi della masnada di Core»[36] (cfr. Nm 16 28-34): cioè, fuor di metafora, come un ultimo giorno di salvezza invece che di dannazione. Nonostante questo però, nota amaramente Kant, tale «fede eroica della virtù»[37] non porta i cuori alla conversione come l’idea di una fine terrificante.

Nella parte seguente del testo Kant fa una “Osservazione”, ove esplicita che con queste argomentazioni abbiamo a che fare con «idee create dalla stessa ragione, e i cui oggetti (posto che ne abbiamo) si trovano totalmente oltre il nostro orizzonte»[38]; nonostante ciò però, esse non devono essere considerate vuote tout court. Esse ci sono infatti fornite, dal punto di vista pratico (in praktischer Absicht), dalla ragione pura pratica, per farci riflettere sul corretto modo di pensarle affinché «esse siano in favore di princìpi morali volti allo scopo finale di tutte le cose»[39]; in questo modo tali idee acquistano «realtà pratica oggettiva (objective praktische Realität[40][41]. Quello che Kant intende è che, a partire dalla realtà pratica della duratio noumenon, abbiamo la possibilità di pensare dal punto di vista pratico una temporalità diversa da quella sensibile, togliendo a questa la successione[42].

Tali affermazioni kantiane richiamano il più ampio discorso, all’interno del criticismo, sul problema del ‘punto di vista pratico’ (praktische Absicht), che svilupperò con alcune citazioni. Il rapporto kantiano con la ‘vecchia’ metafisica si instaura infatti da una parte come prova della illegittimità delle sue pretese (il riferimento è ovviamente alla “Dialettica trascendentale” della Critica della ragione pura), e dall’altro come esposizione della reale natura pratica dei suoi concetti; perché, come ci mette in guardia Kant in questo stesso testo, tali idee «ci sono fornite, dal punto di vista pratico, dalla stessa ragione legislatrice non già per lambiccarci il cervello intorno ai loro oggetti, su che cosa essi siano in sé e secondo la loro natura»[43] ma per essere finalizzate allo scopo finale della ragione. Questa esposizione, a mio parere di decisivo interesse, viene esplicitata ripetutamente nel sistema rispetto ai tre oggetti della vecchia metafisica, ovvero Dio anima e mondo. Nel seguito farò riferimento al primo concetto (ma il discorso può essere fatto sugli altri due concetti della ‘vecchia’ metafisica, come anche sul concetto di eternità di cui si è trattato supra[44]).

Si può partire dalla Critica della ragione pratica (1788). Nella “Analitica della ragione pura pratica”, Kant espone il concetto di causa noumenon[45], al fine di comprendere l'idea di libertà trascendentale nell'essere razionale finito; esso è tale in quanto è dotato della facoltà di produrre nuove serie causali[46]. La possibilità di pensare la realtà della libertà deriva dalla identificazione di quest'ultima con il darsi della ragion pura pratica (quello che Kant chiama il «fatto della ragione [Factum der Vernunft[47], cioè la capacità della ragione pura di determinare la volontà mediante la legge morale[48]). Esso è per Kant è inspiegabile[49] – di conseguenza se ne può dare solo una «esposizione»[50] (Exposition) e non una spiegazione – ma procura «realtà»[51] (Wirklichkeit) alla libertà trascendentale[52] in quanto viene fornito ad essa come oggetto la ragion pura pratica stessa in quanto causa noumenon. Al fine di poter pensare[53] il rapporto noumenico fra ragione pura pratica e volontà devo fare un uso analogico[54] (cioè senza schema dell'immaginazione) della categoria causa. Ma il concetto di una causa prima (definita come causa sui[55] o causa incausata[56], pur nelle loro differenze) è un concetto cardine della ‘vecchia’ metafisica, il quale viene fino a Kant riferito a Dio[57]. La ‘rivoluzione’ kantiana consiste nel suo inveramento attraverso lo spostamento dalla metafisica alla morale; cioè, come Kant esplicita nella “Dialettica della ragione pura pratica”, «il concetto di Dio [che, nella postulazione, è stato definito come «causa di tutta la natura, differente dalla natura»[58], qualità riferibili alla stessa ragion pura pratica] non appartiene originariamente alla fisica e cioè alla ragione speculativa [e dunque anche alla metafisica] ma alla morale»[59]. Questo perché, secondo Kant, solo da un punto vista morale è possibile una determinazione del concetto di essere supremo (come descritto dalla ‘vecchia’ metafisica), mentre non lo è dal punto di vista fisico o metafisico[60]. Infine la stessa prova cardine della 'vecchia' metafisica, quella ontologica, manifesta in realtà l’agire di un soggetto morale, in quanto la non distinzione fra pensare ed essere che caratterizza tanto Dio quanto la stessa prova vale in realtà solo per esso. Esso da una parte pone infatti in essere dei concetti (Bene e Male) e dall’altra nella sua ragion pura pratica (se perfetta) non c’è distinzione fra la rappresentazione della volontà buona e l’atto di agire conformemente ad essa.

L’identificazione della ragione pura pratica con Dio diviene esplicita nell’Opus Postumum, dove Kant afferma in modo perentorio:

Dio non è un essere fuori di me, ma solo un pensiero in me. Dio è la ragione etico-pratica in se stessa legislatrice. Perciò soltanto un Dio, in me, intorno a me, e sopra di me.[61]

Come altro esempio vorrei citare un passo che riguarda una delle domande chiave della metafisica cioè “Perché l’essere piuttosto che il nulla?”:

Supponete un uomo pieno di rispetto per la legge morale, al quale venga l’idea di domandarsi […] quale mondo egli creerebbe, sotto la direzione della ragione morale, se fosse in suo potere farlo […]; vedreste che egli, lasciato libero nella scelta, non solo lo sceglierebbe esattamente quale lo esige l’idea morale del sommo bene [das höchsten Gut], ma vorrebbe anche che un mondo qualsiasi esistesse, perché la legge morale esige che il sommo bene [das höchsten Gut] possibile per opera nostra sia attuato[62].

In base a questo passo vediamo che non solo la stessa domanda metafisica ha senso solo ‘da un punto di vista pratico’ (ed è risolta grazie alla teologia morale della Critica del Giudizio) ma che anche lo stesso rapporto metafisico fra Dio e mondo si risolve in quello fra ragione pura pratica (che abbiamo visto identificata con Dio e che è definita nella KpV come «bene supremo»[63]) e il sommo bene (che è il migliore dei mondi possibili ovvero «il bene intero e perfetto»[64]). Sono probabilmente questi passi che hanno spinto a parlare, anche se marginalmente, lo studioso Yovel di un concetto kantiano di ‘alienazione’ nei confronti della ‘vecchia’ metafisica, affermando che «a theoretical model of alienation may be found […] in the evaluation of dogmatic metaphysics that must stem from his Copernican revolution»[65]. Questa “alienazione” può essere spiegata, a mio parere, attraverso lo schematismo dell'analogia, che Kant espone nella Religione e in cui lo definisce come il «ricorrere a certe analogie con esseri della natura per renderci comprensibili modalità soprasensibili»[66]. La postulazione dell'esistenza di Dio si pone dal punto di vista della finitezza dell'essere razionale: Kant parla a proposito di un «bisogno della ragione pura pratica»[67] fondato sul dovere della attuazione del sommo bene; a partire però dalla caratterizzazione ectipa dell'intelletto umano[68], ovvero dalla necessità nella conoscenza di unirsi alla facoltà della sensibilità, l'uomo tende – per  quella che crede essere una maggiore comprensione dal punto di vista teoretico – a sensibilizzare i concetti pratici[69]. Si ottiene così da una parte la rappresentazione antropomorfica e sensibilizzata (in quanto fuori dallo spazio e prima del tempo) della ragione pura pratica e dall'altra si pensa la fine di tutte le cose dal punto di vista teoretico-conoscitivo (contraddittorio, come Kant mostra nel seguito) piuttosto che dal punto di vista pratico.

Kant afferma dunque che, a partire dall’utilizzo pratico di tali idee, abbiamo un «campo» (Feld) libero che ci consente di scomporre il concetto generale di una fine di tutte le cose «secondo il rapporto (Verhältniss) che esso ha con la nostra facoltà di conoscere»[70] e di classificare ciò che è compreso sotto questo stesso concetto. Il passo riprende quasi alla lettera la definizione di campo che Kant ha dato nella “Introduzione” alla Critica del Giudizio, secondo cui:

«i concetti, in quanto vengono riferiti a oggetti, senza che  si tenga conto se una loro conoscenza sia o no possibile, hanno un loro campo [Feld], il quale è determinato semplicemente secondo il rapporto [Verhältniss] che il loro oggetto ha con la nostra facoltà conoscitiva in genere»[71].

A partire da questo rapporto, prodotto dall’utilizzo pratico di questi concetti, la trattazione viene suddivisa in tre parti: «la fine naturale di tutte le cose secondo l’ordine morale dei fini morali della saggezza divina»[72]; «la fine mistica (soprannaturale) di tutte le cose nell’ordine della cause efficienti»[73] della quale non comprendiamo nulla; «la fine antinaturale (fittizia) di tutte le cose» della quale «siamo noi stessi causa per il fatto che intendiamo in maniera errata lo scopo finale»[74].

Per quanto riguarda la prima, è l'unica che è possibile intendere dal punto di vista pratico; infatti, come Kant esplicita in nota, il concetto di «naturale (formaliter)» deve essere inteso come ciò che «segue necessariamente, secondo leggi, un certo ordine»[75] e che di conseguenza può essere tanto quello morale quanto quello fisico (naturale materialiter, cioè fisicamente necessario): di conseguenza essa riguarda l’ordine morale. A partire da questa precisazione, è chiaro che è quella che Kant ha trattato nella prima parte dello scritto, e che noi abbiamo esposto seguendolo. Ora illustreremo le restanti due.

Per quanto riguarda la prima, Kant inizia l’esposizione citando un passo dell’Apocalisse (X, 5-6) in cui un angelo giura che «d’ora innanzi non deve esservi più alcun tempo»[76]. Secondo Kant tale affermazione va intesa come fine del cambiamento, in quanto il tempo è la condizione necessaria per il darsi del mutamento (essendo per noi, come abbiamo specificato supra[77], essenzialmente successione dei fenomeni). Di questa fine degli oggetti dei sensi non possiamo farci alcun concetto; di conseguenza essa si identifica con la fine mistica di tutte le cose. La sua incomprensibilità deriva dal fatto che se tentiamo di entrare con la ragione nel mondo intelligibile cadiamo in contraddizione: questo perché «l’attimo [Augenblick] che costituisce la fine del mondo sensibile deve essere anche l’inizio del mondo intelligibile»[78] formando insieme una unica serie temporale. Cerchiamo di rendere più precisa questa argomentazione kantiana: nel momento in cui pensiamo il problema dell’ultimo attimo del tempo, si pone il problema, secondo Kant, del concetto di attimo inteso come limite del tempo. Nella Dissertazione del 1770 afferma infatti che «una qualsivoglia parte del tempo è tempo; ed i semplici che ci sono nel tempo, ossia i momenti [momenta], non sono parti del tempo ma termini tra i quali è disteso il tempo»[79]. Di conseguenza la contraddizione deriva dall’intendere l’attimo come infinitesima estensione temporale; dato che Kant afferma che «spazio e tempo sono entrambi grandezze, e precisamente di un tutto che è rappresentabile come sempre e soltanto come parte di un tutto ancora maggiore: cioè, entrambi sono rappresentati come dati quali grandezze infinite, non semplicemente come indeterminabilmente grandi o piccoli (in senso aritmetico) (quanta indefinita), bensì come quanta dati indefinitamente»[80]; allora se pensiamo l’attimo come passaggio, il tempo cessa di essere unico e omogeneo (come deve essere secondo l’”Estetica Trascendentale”) per diventare discreto o discontinuo, il che è in contraddizione con la concezione dell’idealità del tempo kantiana.

Secondo Kant però, il motivo del pensiero di una durata infinita è che esso permette un concetto negativo della durata eterna (derivante dal fatto che dove non vi è tempo, non vi è nemmeno fine). Esso infatti, pur non allargando la nostra conoscenza, serve , da un punto di vista pratico (come Kant ha esplicitato supra[81]), perché esso esplicita che «la ragione [pura pratica] che persegue […] il suo scopo finale, non può mai trovare soddisfazione nei continui cambiamenti»[82]; infatti se essa tenta «di ricorrere al principio della quiete e della immutabilità dello stato degli esseri mondani»[83], precipita in una totale assenza di pensiero (in quanto tale stato presuppone, come Kant specifica poco oltre, l’assenza del pensiero, che richiede il tempo per sussistere). Di conseguenza essa è costretta «a raffigurarsi un cambiamento che proceda all’infinito (nel tempo), in continuo progresso verso lo scopo finale»[84], durante il quale l’intenzione morale (che in quanto soprasensibile è immutabile) permane e si mantiene sempre uguale a sé. «La regola dell’uso pratico della ragione in conformità a questa idea» afferma dunque che «noi dobbiamo intendere la nostra massima come se in tutti i cambiamenti che vanno all’infinito dal bene al meglio il nostro stato [Zustand] morale non fosse assoggettato, per quel che concerne l’intenzione morale […], a nessun cambiamento»[85].

Da ciò segue che la nostra conoscenza della eternità è dunque simbolica o analogica: infatti, come ha detto Kant nella sua Dissertazione del 1770, «non si dà (almeno per l’uomo) intuizione degli enti intellettuali, bensì soltanto una cognizione simbolica»[86]; ovvero come esporrà più ampiamente nel Giudizio la conoscenza di Dio (come degli altri concetti pratici) è simbolica, derivando da quella che Kant definisce come «ipotiposi simbolica» ovvero quella che si ha

se per un concetto, che solo la ragione può pensare e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile , ne viene fornita una [intuizione] rispetto alla quale il procedimento della facoltà di giudizio è solo analogo a quella che essa segue nello schematizzare, vale a dire che con quel concetto si accorda solo la regola di questo procedimento, non l’intuizione stessa, quindi solo secondo la forma del riflettere, non secondo il contenuto[87].

La rappresentazione della fine del tempo ripugna però l’immaginazione, perché in tal modo «l’intera natura rimarrebbe irrigidita e per così dire pietrificata»[88]: cioè «l’ultimo pensiero, l’ultimo sentimento si fisserebbero nel soggetto pensante, senza più cambiare»[89]; la qual cosa, per un «essere che solo nel tempo può essere cosciente (bewußt) della propria esistenza»[90] è come un annientamento, in quanto per potersi pensare in un tale stato deve compiere una riflessione la quale però ha luogo solo nel tempo. È  per questo motivo, secondo Kant, che gli abitanti dei due regni dell’aldilà vengono rappresentati senza alcun mutamento (cfr. per il Paradiso Ap. 19,1-6 e per l’Inferno Ap. 20,15).

Nonostante la sua trascendenza conoscitiva, tale idea è però legata alla ragione pura pratica: infatti, posto che lo stato morale-fisico dell'uomo sia in un progresso continuo verso il sommo bene, l’uomo non può ritenersi soddisfatto con la prospettiva di un perenne mutamento di questo stato; questo perché il suo stato attuale è sempre un male rispetto a quello migliore successivo. Dunque tale idea è l’unico modo per ottenere una soddisfazione che derivi dal pensiero del definitivo raggiungimento dello scopo finale. Nel tentativo tuttavia di conoscere appieno tali idee, la ragione cade nella mistica, immaginando la seconda possibile fine di tutte le cose: da esso, dice Kant, deriva «il carattere mostruoso del sistema di Lao Tze», secondo cui il sommo bene deve consistere nel nulla, ovvero nel «sentirsi inghiottiti nell’abisso della divinità in virtù dell’unione con essa e del conseguente annullamento della propria personalità»[91]. Dallo stesso motivo derivano il panteismo e lo spinozismo; essi sono parenti dell’«antichissimo sistema dell’emanazione»[92]. Kant non fa riferimenti storici ma noi possiamo pensare per esso da una parte al neoplatonismo e dall’altra, come sua probabile prima formulazione occidentale, a Anassimandro; egli afferma infatti nel frammento DK 12B1:

«principio degli esseri è l’infinito [ἄπειρον] […] da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»[93].  

Tali sistemi, prosegue Kant, errano  pensando che essa sia «la felice fine di tutte le cose»[94] perché essa altro non è che «un concetto che conduce alla rovina dell’umana ragione e, in pari tempo, alla fine di ogni pensiero»[95].

Per quanto riguarda la fine antinaturale, essa è una «follia» (Thorheit[96]) nel senso che essa «equivale […] a usare per gli scopi prefissi mezzi che ripugnano ad essi»[97]. Dato che la «saggezza (Weisheit), ossia la ragion [pura] pratica in quanto conforme alle sue norme pienamente corrispondenti allo scopo finale di tutte le cose, il sommo bene, alberga unicamente in Dio», la «saggezza umana» si riduce a «non agire in maniera chiaramente contraria a questa idea»[98]. Ma per l’uomo ciò può essere faticosamente ottenuto «solo al prezzo di non pochi tentativi e modificando di frequente i suoi disegni», pur non soggiacendo mai «alla convinzione di aver[la] afferrat[a] […], né tanto meno di agire come se ci fosse riuscito»[99]. Da questa incapacità umana sorgono «i progetti miranti a trovare mezzi atti a rendere la religione nello stesso tempo pura e autorevole agli occhi d’ un intero popolo»[100]. Ma se si arriva al punto che il corpo comune (Gemeinwesen[101]) ascolta sia le dottrine religiose tradizionali che la ragion pura pratica che viene illuminata da esse; se i saggi, come concittadini (Mitbürger) e non come clero, elaborano progetti finalizzati alla verità; e se il popolo prende interesse, per un bisogno universalmente sentito e non imposto da qualche autorità, alla coltivazione della propria disposizione morale: allora, secondo Kant, bisogna lasciar fare i saggi, essendo essi sulla buona strada. Per quanto riguarda invece l’esito prodotto da questi mezzi, ci dobbiamo affidare alla Provvidenza (Vorsehung), in quanto non ne conosciamo il possibile esito. Di conseguenza, specifica Kant, «siamo costretti a supporre, sotto il profilo pratico un concorso della saggezza divina [ma si tratta sempre della ragione pura pratica] nell’andamento della natura»[102], a meno di non voler rinunciare al proprio scopo finale. Il progetto kantiano, in base alla complessità di un tentativo nuovo fra tanti che ne sono stati fatti, è dunque di «lasciare stare le cose nello stato in cui si trovano negli ultimi tempi»i cui effetti sono «accettabili»[103]. In questo Kant riprende ciò che aveva già sostenuto nella Religione, in cui ha affermato che:

Se ora si domanda: quale è la migliore epoca di tutta la storia della chiesa finora conosciuta, io rispondo senza esitazione: è l’epoca attuale, ed in verità, perché basta che si lasci sviluppare liberamente sempre di più il germe della vera fede religiosa, come è stato ai nostri giorni riposto nella cristianità, solo da qualche singolo, ma tuttavia pubblicamente; per aspettarsene un continuo avvicinamento a quella chiesa, che riunisce tutti gli uomini per sempre e che costituisce la rappresentazione visibile (lo schema) di un regno invisibile di Dio sulla terra[104].

Tuttavia questa non è «l’opinione di uomini dal forte ingegno, o comunque «dotati di maggiore intraprendenza»[105]. Il riferimento è probabilmente a Johann Christoph Wöllner (1732-1800) - un parroco luterano che dal 1788 fu ministro di giustizia di Federico Guglielmo II di Prussia (1744-1797) e capo del dipartimento di culto, e che preparò nello stesso anno l’”editto sulla religione” che limitava pesantemente la libertà di stampa - in quanto Kant ne parlerà come un uomo «al quale pure non si può legittimamente attribuire alcun altro motivo se non i buoni propositi fondati sulla sua intima convinzione»[106] e a Federico Guglielmo II, i quali avevano censurato autoritariamente la Religione di Kant con quell'editto. Vi si può forse anche reperire, come è stato fatto[107], un ammonimento a tutti i sostenitori di cambiamenti rapidi e radicali nelle credenze e nelle pratiche religiose dell’umanità[108], cioè ai rivoluzionari del Termidoro (nel cui stesso periodo esce lo scritto in questione) ma sicuramente la polemica è più forte nei confronti della censura religiosa. Chiunque sia il referente, Kant gli segnala ciò che non dovrebbe fare per non agire contro la propria intenzione. Tale ammonimento deriva dal fatto che il Cristianesimo, oltre il rispetto che ispira, ha anche «in sé un alcunché di amabile (Liebenwürdiges[109], nei riguardi della cosa stessa, ossia della disposizione morale. Tale «amore[110] [pur avendo come condizione il rispetto (Achtung)] è, in quanto libero accoglimento della volontà altrui tra le proprie massime, il complemento indispensabile dell’imperfezione dell’umana natura»[111], cioè è il fondamento soggettivo delle azioni che osservino la legge: in assenza di esso, infatti, si tenterebbe di aggirare meschinamente il dovere. In queste poche righe Kant da una parte dà un interessante rilettura morale della dottrina teologica della Grazia come amore[112]; dall’altra ci permette di comprendere appieno[113] la sua celebre definizione di religione, che egli ripete spesso nei suoi scritti morali, ovvero che essa è la «conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini»[114]. Tale comprensione è permessa perché prendiamo i nostri doveri come se scaturissero da una volontà superiore e santa, cioè la volontà di Gesù. Se però, ammonisce Kant, per renderlo migliore, «si aggiungesse al cristianesimo un’autorità [perfino divina]» allora «scomparirebbe la sua amabilità», perché è contraddittorio «comandare a qualcuno non solo di fare qualcosa ma anche di doverlo fare volentieri»[115].Tale amabilità deriva, secondo Kant, dal fatto che il suo fondatore non parla in qualità di comandante ma di «amico degli uomini, che insinua nell’animo dei suoi simili il loro proprio volere ben inteso, quello cioè secondo il quale agirebbero essi stessi spontaneamente se esaminassero spontaneamente se stessi»[116]. Questo è il modo di pensare liberale (liberale Denkungsart)[117], a cui il cristianesimo affida il successo della propria dottrina e attraverso cui conquista il cuore degli uomini: vale a dire che è «il sentimento di libertà nella scelta dello scopo finale, ecco quel che rende amabile agli uomini la legislazione»[118]. A partire da questa concezione del cristianesimo, Kant afferma che le punizioni sono moniti affettuosi sulla violazione della legge e non moventi, e le ricompense non sono compensi per le buone azioni[119] perché in esse si mostra solo la bontà del volere del benefattore che lo elargisce nel modo di pensare liberale. Tale amabilità, sottolinea Kant, brilla nella Aufklärung: il che significa che nel periodo storico di Kant si può pensare una compiuta realizzazione del Cristianesimo in quanto compreso come religione razionale ovvero morale; è dunque in questo momento storico che questa religione non deve essere fermata con l'aggiunta di una autorità dispotica. Tuttavia se il cristianesimo dovesse smettere di essere amabile, dotandosi di essa, allora, dato che non vi è neutralità nelle cose morali, il modo di pensare dominante sarebbe di avversione e di ribellione nei suoi riguardi. In tal modo «l’Anticristo […] darebbe inizio al suo pur breve regno (fondato, è da presumere, sulla paura e l’egoismo)»[120]; dato che il cristianesimo, pur essendo destinato ad essere la religione universale non sarebbe favorito dalla sorte a diventarlo, sarebbe allora la «fine (fittizia) di tutte le cose dal punto di vista morale»[121]. Il motivo di questa fine perversa è la riconduzione di una dottrina che insegna ad amare e a rispettare la le legge interiore, quale è il cristianesimo, ad una legislazione esteriore: cioè il suo spostamento dalla moralità alla legalità (in quanto Kant definisce «ogni diritto in senso stretto (ius strictum) come «legato alla facoltà di costringere»[122]), ovvero la riduzione dello «homo noumenon» all’«homo phaenomenon»[123]. Nella descrizione di tale fine Kant mostra profonda amarezza, per la consapevolezza che questa autorità impedirebbe la costituzione della chiesa visibile (in quanto il messaggio morale corretto di Gesù verrebbe confuso con la fede di chiesa nell’opposizione a essa) e dunque la realizzazione dello stesso sommo bene.

[113] la sua celebre definizione di religione, che egli ripete spesso nei suoi scritti morali, ovvero che essa è la «conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini»[114]. Tale comprensione è permessa perché prendiamo i nostri doveri come se scaturissero da una volontà superiore e santa, cioè la volontà di Gesù. Se però, ammonisce Kant, per renderlo migliore, «si aggiungesse al cristianesimo un’autorità [perfino divina]» allora «scomparirebbe la sua amabilità», perché è contraddittorio «comandare a qualcuno non solo di fare qualcosa ma anche di doverlo fare volentieri»[115]. Tale amabilità deriva, secondo Kant, dal fatto che il suo fondatore non parla in qualità di comandante ma di «amico degli uomini, che insinua nell’animo dei suoi simili il loro proprio volere ben inteso, quello cioè secondo il quale agirebbero essi stessi spontaneamente se esaminassero spontaneamente se stessi»[116]. Questo è il modo di pensare liberale (liberale Denkungsart)[117], a cui il cristianesimo affida il successo della propria dottrina e attraverso cui conquista il cuore degli uomini: vale a dire che è «il sentimento di libertà nella scelta dello scopo finale, ecco quel che rende amabile agli uomini la legislazione»[118]. A partire da questa concezione del cristianesimo, Kant afferma che le punizioni sono moniti affettuosi sulla violazione della legge e non moventi, e le ricompense non sono compensi per le buone azioni[119] perché in esse si mostra solo la bontà del volere del benefattore che lo elargisce nel modo di pensare liberale. Tale amabilità, sottolinea Kant, brilla nella Aufklärung: il che significa che nel periodo storico di Kant si può pensare una compiuta realizzazione del Cristianesimo in quanto compreso come religione razionale ovvero morale; è dunque in questo momento storico che questa religione non deve essere fermata con l'aggiunta di una autorità dispotica. Tuttavia se il cristianesimo dovesse smettere di essere amabile, dotandosi di essa, allora, dato che non vi è neutralità nelle cose morali, il modo di pensare dominante sarebbe di avversione e di ribellione nei suoi riguardi. In tal modo «l’Anticristo […] darebbe inizio al suo pur breve regno (fondato, è da presumere, sulla paura e l’egoismo)»[120]; dato che il cristianesimo, pur essendo destinato ad essere la religione universale non sarebbe favorito dalla sorte a diventarlo, sarebbe allora la «fine (fittizia) di tutte le cose dal punto di vista morale»[121]. Il motivo di questa fine perversa è la riconduzione di una dottrina che insegna ad amare e a rispettare la le legge interiore, quale è il cristianesimo, ad una legislazione esteriore: cioè il suo spostamento dalla moralità alla legalità (in quanto Kant definisce «ogni diritto in senso stretto (ius strictum) come «legato alla facoltà di costringere»[122]), ovvero la riduzione dello «homo noumenon» all’«homo phaenomenon»[123]. Nella descrizione di tale fine Kant mostra profonda amarezza, per la consapevolezza che questa autorità impedirebbe la costituzione della chiesa visibile (in quanto il messaggio morale corretto di Gesù verrebbe confuso con la fede di chiesa nell’opposizione a essa) e dunque la realizzazione dello stesso sommo bene.

 
Articolo online dal 19 giugno 2011
 

Note

[1] “Rivista mensile di Berlino”, edita e diretta da Friederich Gedike e da Johan Erich Biester e poi dal 1791 solo da quest’ultimo.

[2] L’idea del saggio può essere venuta a Kant a partire dall’iconografia Finis (1784) di William Hogarth: cfr. Fabrizio Desideri, Quartetto per la fine del tempo. Una costellazione kantiana, Marietti Genova 1991, pp. 130-131. L’iconografia citata (presente nel testo) è minuziosamente analizzata da Andrea Tagliapietra in “Kant e l’apocalisse”, in I. Kant, La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri Torino 2006 (pp. 47-122), pp.  104-107.

[3] Ead, AA VIII 327; tr. it. p. 241.

[4] Cfr. infatti la definizione di Dauer in KrV A215/B262; tr. it. p. 286: «la grandezza (Grösse) dell'esistenza» è «la durata» (t.m.; = KpV, A247; tr. it. p. 301).

[5] KrV, A31/B47, tr. it. p. 87; cfr. anche «il principio» della «possibilità di tutte le mutazioni [mutationes] e successioni [successiones] […] sta nel concetto di tempo», Diss, AA II 410, tr. it. p. 449-50. Questa concezione del tempo come successione è già presente in David Hume: cfr. Trattato sulla natura umana (1739-40), libro I, parte II, sez. 2.

[6] R 4121 AA XVII 424, tr. it. di G. Cunico in Id., Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Marietti, Genova, 1992, p. 244 n27. In ciò essa si oppone secondo Kant totalmente all’attimo (Augenblik) che invece è «esistenza [Daseyn] senza nessuna durata [Dauer]» (R 4121, ibidem).

[7]  R 4269 AA XVII 489,  tr. it. di G. Cunico in Id., op. cit., p. 222. Nonostante Kant ponga esplicitamente il problema di questa distinzione solo in questo scritto, nella KpV - come ha giustamente sottolineato C. M. Sherover, “The question of noumenal time”, “Man and World” vol. 10 no 4 1977 p. 421 – si trova già in nuce la distinzione  lessicale fra Zeit (tempo) e Dauer o Fortdauer (durata), secondo la quale il primo viene sempre riferendo ai fenomeni e il secondo ai noumeni (si cfr. come campione l'uso di Zeit nella Dilucidazione critica e l'uso di Dauer e Fortdauer nella Dialettica trascendentale della KpV).

[8] EaD, AA VIII 327; tr. it. p. 241.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. R 5962 AA XVIII 402: «È tuttavia possibile pensare la propria esistenza [Daseyn] al di fuori del tempo [Zeit], [...] e la categoria dell'esistenza è quanto meno un concetto, che rimane, se prescindiamo dal fatto che non può essere pensato come determinato, come ad esempio la durata senza tempo [Dauer ohne Zeit]» tr. it.  in G. Tognini (a cura di), Introduzione alla morale di Kant, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, p. 97.

[11] Cfr. KrV, A255/B311; tr. it. p. 330.

[12] Prol., AA IV  352; tr. it. pp. 227-229.

[13] EaD, AA VIII 327; tr. it. p. 241; cfr. supra nota 4 e nota 7 per la stessa definizione e lo stesso uso nella KrV e nella KpV.

[14] Cfr. KrV, A 292/B 349; tr. it. p. 358.

[15] Alexander Gottlieb Baumgarten, Metaphysica (1779), § 302, Georg Olms Verlag Hildesheim New York 1982, p. 91. (testo presente nella ‘biblioteca’ di Kant: cfr. ArthurWarda, Immanuel Kants Bücher, Martin Breslauer Veralag Berlin 1922, p. 17). Si sostiene ciò a differenza di F. Desideri, op. cit., p. 153-4, che afferma erroneamente - a mio parere - la continuità fra le due definizioni.

[16] B. Spinoza, Etica (1662), I def. 8 explicatio, Bompiani Milano 2008, p. 7.

[17] A mio parere, la tematica della duratio noumenon non deve però essere limitata alla spiegazione del rapporto fra la ragione e l'idea della fine del mondo (come avviene qui), ma può essere proficuamente utilizzata per comprendere il problema della temporalità pratica che consegue al postulato della immortalità dell'anima nella KpV: cfr. infra n42.

[18] EaD, AA VIII 327; tr. it. p. 242.

[19] Kant fa riferimento alla caduta delle stelle e il crollo o il ravvolgimento come un rotolo del cielo (cfr. Ap., 6, 12-14).

[20] EaD, AA VIII 329; tr. it. p. 244.

[21] Ibidem; cfr. l'opposizione che Kant compie fra «dogmi teoretici» (t.m.) e «postulati [… come] supposizioni [teoretiche] da un punto di vista necessariamente pratico» (KpV, A238; tr. it. p. 289); cfr. anche la definizione analoga di postulato in Ivi, A220; tr. it. p. 269.

[22] Ead, AA VIII 330; tr. it. p. 244.

[23] Ivi, AA VIII 330; tr. it. p. 245. Sia detto per inciso, l’utilizzo del ‘come se’ all’interno di quest’opera ha spinto, forse eccessivamente, un interprete come Jacob Taubes ad affermare che in questo saggio «le dichiarazioni metafisiche dell’escatologia cristiana diventano il come se dell’escatologia trascendentale» (J. Taubes, Escatologia occidentale (1947), Garzanti Milano 1997,p. 180).

[24] EaD, AA VIII 327; tr. it. p. 241-2.

[25] Ivi, AA VIII 331; tr. it. p. 245.

[26] Come verrà poi definita in SF, AA VII 82; tr. it. p. 284.

[27]«Se è uno spettacolo degno di una divinità vedere un uomo virtuoso lottare contro avversità e tentazioni al male e pur tenere loro testa, così è uno spettacolo massimamente indegno non dico per una divinità, ma anche per l’uomo più comune, purché retto, vedere il genere umano, di era in era, fare passi in avanti verso la virtù e poi ricadere subito in modo altrettanto profondo nel vizio e nella miseria. Assistere per qualche tempo a questa tragedia può forse essere toccante e istruttivo; ma infine deve pura cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano, perché sono pazzi, se ne stanca lo spettatore, che ad un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha motivo di presumere che l’opera, non giungendo mai alla fine, sia sempre la stessa. Il castigo che segue nell’epilogo, se si tratta di un semplice spettacolo teatrale, può certo rimediare alle spiacevoli sensazioni, giacché a quel punto si esce.» (TP, AA VIII 308; tr. it. p. 154); è interessante notare che l'immagine dello spettacolo per la divinità dell'uomo giusto che combatte le avversità è stato quasi sicuramente ispirato da Seneca, De providentia, 2.

[28] Träume, AA II 349-350; tr. it. p. 381. Infatti nell’Antropologia Kant ha sostenuto che «vivere alla giornata (senza previsione o preoccupazione) non fa veramente molto onore all’intelletto umano, come succede al caraibico, il quale alla mattina vende la sua amaca, e alla sera è in difficoltà perché non sa come dormirà la notte» (Antr. AA VII 186, tr. it. p. 72).

[29]Il nostro mondo infatti, ci ricorda Kant, è stato sempre rappresentato con tutte similitudini negative: come una locanda, come una prigione, come un manicomio o come cloaca.

[30] EaD, AA VIII 331; tr. it. p. 246.

[31] Ivi, AA VIII 332; tr. it. p. 246.

[32] Ibidem. Qui Kant sta facendo riferimento al dislivello che si è prodotto nella sua epoca tra la disposizione (cfr. definizione in Rel. AA VI 28, tr. it. p. 27) alla umanità e quella alla personalità, ovvero tra la civilizzazione e la moralizzazione a causa della maggiore presenza della culturalizzazione rispetto a quest'ultima (cfr. IaG, AA VIII 26, tr. it. p. 38 cit. in n33): in questo contesto la moralità non solo non aumenta ma regredisce (cfr. R1458 Ak XV 640, datata 1783-84) a causa della Denkungsart imperante della legalità ovvero quella secondo cui ciò che conta della moralità è il suo aspetto esterno, non l'interiorità (cfr. Bem. AA XX 84; tr. it. p. 131).

[33] Per questo concetto cfr. KdU, § 84; per il rapporto fra le due cfr. da una parte Antr., ove Kant scrive «L’uomo è determinato dalla sua ragione a vivere in società con uomini e in essa a coltivarsi con l’arte e con le scienze,  civilizzarsi, a moralizzarsi, e, per quanto grande sia la sua tendenza animalesca ad abbandonarsi passivamente agli stimoli del piacere e della voluttà, che egli chiama felicità, egli è spinto piuttosto a rendersi attivamente degno dell’umanità nella lotta contro le difficoltà, che gli sono opposte dalla rozzezza della sua natura» (Antr., AA VII 324-5 ,tr. it. p. 220); dall'altra IaG, ove Kant esprime il suo giudizio negativo nei confronti della propria epoca, affermando che «noi siamo, per mezzo di arte e scienza acculturati [cultivirt] in alto grado. Siamo civilizzati [civilisirt], sino all'eccesso, in ogni forma di cortesia e decoro sociale. Ma per ritenerci moralizzati [moralisirt] ci manca ancora molto» (IaG, AA VIII 26, tr. it. p. 38).

[34] EaD AA VIII 332;tr. it. p. 247.

[35]Cfr. KdU, § 86 B413; tr. it. p. 276; cfr. anche Antr., AA VII 295 tr. it.p. 187.

[36] EaD AA VIII 332; tr. it. p. 247.

[37] Ibidem

[38] Ibidem

[39] Ivi, AA VIII 332-3; tr. it p. 247.

[40]L’uso di tale termine mostra come Kant non parli in questo caso di esistenza di tali oggetti (la quale sarebbe un’assurdità, dato che non sono oggetto di nessuna esperienza possibile) ma di predicazione o determinazione di essi, resa possibile dal punto di vista pratico. Nonostante Kant non rispetti sempre questa distinzione – come nel caso di pensare e conoscere –possiamo distinguere fra Realität e Wirklichkeit a partire dal contesto. Questa è definita come «ciò che è collegato con le condizioni materiali dell'esperienza [Erfahrung] (con la sensazione [Empfindug])» (KrV, A218/B266; tr. it. p. 289); Kant invece identifica la Realität con la predicazione, affermando che «quanto più numerose sono le conseguenze vere di un dato concetto, tanto più numerosi sono i segni distintivi della sua realtà oggettiva» (KrV, B114; tr. it. p. 140): la «realtà [Realität] oggettiva di un concetto» è infatti «la possibilità del suo oggetto», in riferimento all'oggetto a priori ammesso necessariamente dalla fede (Logik AA IX 69; tr. it. p. 63n); dato che la fede «tiene il posto di una conoscenza, pur senza esserlo» (ivi, AA IX 70; tr. it. p. 64), possiamo dire l'oggetto della fede  è come se fosse una conoscenza; si deve  dunque togliere ad essa l'intuizione come percezione di qualcosa che ne attesta la realtà, pur rimanendo la predicazione logica di essa.

[41] Ead, AA VIII 333; tr. it. p. 247.

[42]Come accennato nella n17, il concetto di duratio noumenon può essere utilizzato per rendere comprensibile il problema del cosiddetto tempo noumenico proprio dell'agire morale del soggetto; nonostante tale tempo sia caratterizzato dal mutamento (dalla conversione: cfr. Rel., I nota generale) e nonstante esso – a partire dalla nostra intuizione sensibile del senso interno – sia pensabile solo come successione, ciò non impedisce che esso possa avvenire in maniera per noi incomprensibile (per la nostra ignoranza strutturale delle cose in sé) ma possibile moralmente all'interno della esistenza noumenica del soggetto morale. Come ha giustamente sottolineato Heinz Heimsoeth, l'assenza di mutamento (su cui cfr. R 5612 AA XVIII 253) è solo una definizione negativa del noumeno, cioè su di esso diamo solo giudizi infiniti (su cui cfr. KrV, A70/B95; tr. it. pp. 126-7): infatti «già in riferimento al postulato dell'immortalità nella Critica della ragion pratica, che pone […] una possibilità infinita di progresso per ogni individuo autonomo, una vita futura, che ad esso tende, dopo la morte, dovrebbe distogliere in modo decisivo dal considerare quella cosa in sé, ovvero anche quel soggetto in sé […], che Kant designa come carattere intelligibile, come un essere statico e in un certo senso sempre già “dato”, factum intelligibile» (Heinz Heimsoeth, “Libertà e carattere secondo le  Riflessioni 5611-5620, in G. Tognini, op. cit., p. 106; cfr. su ciò A Marcus Herz, 12 Febbraio 1772, AA X 134;  tr. it. in Ep., pp. 73-74). Analogamente sulla questione del tempo noumenico cfr. anche Jean Louis Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Aubier-Montaigne Paris 1968, p. 89; Jacques Havet, Kant e le problème du temps, Gallimard Paris 1946, p. 193; Pauline Kleingeld, “Kant, history and the idea of moral development”, in “History of philosophy quarterly”, vol. 16 no 1 1999, pp. 59-80, qui p. 71. Sul tempo noumenico come bisogno della ragione pura pratica cfr. anche Josef Olesti Vila, “Quelques considérations sur la notion kantienne de duratio noumenon” in XI internationaler Kant Kongress, Pisa, 2010 in corso di pubblicazione. Colgo l'occasione per ringraziare il prof. Olesti Vila di avermi inviato il suo contributo in anteprima.

[43] Ivi, AA 332; tr. it. p. 247; t.m.

[44] Cfr. supra p. 3-4.

[45] Cfr. KpV, A85; tr. it. p. 107.

[46] Cfr KrV A445/B473 e A446/B474; tr. it. p. 504 e p. 503. Cfr. anche «Die causalitaet der Vernunft ist freyheit» (R 5619 AA XVIII 258; il testo manoscritto dell'AA riporta questi refusi), e R 5441 AA XVIII 182-3.

[47] Cfr. Ivi, A56; tr. it. p. 67. Nonostante l'apparente omonimia con il termine Tatsache (dato di fatto), Factum in questo contesto deve essere inteso come atto, ovvero come fattispecie in senso giuridico: devo cioè essere concepito come una qualcosa che la ragione ha compiuto e non come un 'dato di fatto' che essa comprende; ciò perché quest'ultima cosa sarebbe un assurdità, a causa della assenza nell'essere razionale finito della intuizione intellettuale. Non a caso infatti Kant usa qui il corrispettivo latino, a cui dà un significato giuridico. Il Factum è già formulato, per quanto riguarda l'arbitrio (Willkür) nella KrV, A802/B830; tr. it. p. 783 e per la ragione (per la prima volta) in GMS, AA IV 396; tr. it.  p. 21.

[48] Cfr. KpV, A218; tr. it. pp. 265-7.

[49] Questo in base al fatto che «ogni perspicacia [Einsicht] umana è finita, quando siamo giunti alle forze o facoltà fondamentali, perché la possibilità di esse non può essere concepita in nessun modo, ma non può neppure essere inventata e ammessa arbitrariamente», KpV A81; tr. it. p. 101; cfr anche Ivi, A128; tr. it. p. 129. L'impossibilità di una spiegazione delle facoltà primarie dell'essere razionale finito deriva dalla loro intrinseca contingenza, la quale non può essere spiegata (cioè non se ne possono dedurre i fondamenti), pena il ricadere nella metafisica precritica. L'atteggiamento critico nei confronti dell'inspiegabilità del contingente si trova nei riguardi delle nostre facoltà in KrV, A557/B585; tr. it. p. 592 e nei riguardi del male radicale in Rel, AA VI 32; tr. it. p. 32.

[50] KpV A80; tr. it. p. 99. Come afferma infatti Kant nella Prefazione, la ragion pura dimostra di essere pratica attestata «mediante il fatto [That]», ivi A3; tr. it. p. 3

[51] KpV, A82; tr. it. p. 103

[52] KpV, A9; tr. it. p. 9; La libertà trascendentale era stata trattata da Kant già nella terza antinomia cosmologica della Critica della ragione pura, intendendola come «spontaneità assoluta» (KrV,A446/B474; tr. it. p. 504; cfr. anche ivi, A418/B446; tr. it. p. 477) cioè come «facoltà di dare spontaneamente inizio a una serie di cose o stati successivi» (ivi, A448/B476; tr. it. p. 506). In quel contesto Kant aveva dimostrato la compossibilità di libertà e necessità naturale attraverso la distinzione fra fenomeni e noumeni.

[53] In Kant i concetti di pensare (denken) e conoscere (erkennen) sono concettualmente, anche se non  sempre terminologicamente, distinti: il secondo si riferisce alla conoscenza dei fenomeni in quanto sottoposti allo spazio e al tempo, il primo alle idea razionali le quali possono essere determinate attraverso un uso analogico delle categorie ma non sono oggetto di conoscenza; si cfr. E. Weil, “Pensare e conoscere, la fede e la cosa in sé”, in Id., Problemi Kantiani, Quattroventi, Urbino 2006, p. 27.

[54] Per Kant solo l'uso schematizzato delle categorie produce conoscenza, ma ciò non impedisce – fin dalla prima edizione della KrV nell'uso teoretico regolativo, nella seconda per un uso pratico – un loro utilizzo per la pensabilità delle idee razionali: cfr. per l'uso pratico KrV, B432; tr. it. pp. 465-6. Si cfr. anche la spiegazione della assenza di uso conoscitivo nel pratico in KdU, B479-482; tr. it. p. 314-316.

[55] Si cfr., tra i più noti, Baruch Spinoza: «intendo per causa di sé (causa sui) ciò la ci essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente», Baruch Spinoza, Etica (1662), parte I def. I, Bompiani  Milano 2008, p. 5.

[56] Cfr. Aristotele, Fisica VIII 4-5 256a14-256b24.

[57] Cfr. la stessa lettura di Kant in KrV, A450/B478; tr. it. p. 508.

[58] KpV, A225; tr. it. p. 275.

[59] Ivi, A252; tr. it. p. 307; t.m.

[60] Ibidem; tale problematica verrà riproposta nella Critica della facoltà di giudizio da Kant, implicitamente attraverso il confronto tra prova fisico-teologia e etico-teologia nei §§ 85-87 , e poi esplicitamente nella Nota generale alla teleologia, B 477-8; tr. it. p. 312-3.

[61] OP, AA XXI 145; tr. it. p.  385; cfr. anche «Il concetto di Dio è la idea di un essere morale che come tale è giudice universale avente dominio [gebietend]. Questa non è un ipotetica cosa [Ding] ma la ragione pura pratica nella sua personalità [PersönlichkeitOP AA XXII 118 e OP AA XXII 54; cfr. già nelle critiche  KpV, A189; tr. it. p. 231 e similmente sulla teologia morale immanente KrV A819/B847; tr. it. p. 796-7.

[62] Rel. AA VI 5; tr. it. p. 6.; t.m.

[63] KpV, A198; tr. it. p. 243.

[64] Ibidem.

[65] Y. Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton University press Princeton N.J. 1980, p. 73n.

[66] Rel., AA VI 64; tr. it. p. 68n.

[67] KpV, A257; tr. it. p. 311-3.

[68] Cfr. KdU §§ 76-77.

[69] Cfr. Rel. AA VI 109; t. m. p. 118 in cui Kant parla di un «bisogno naturale [natürliches Bedürfnis] in ogni uomo di desiderare sempre qualcosa di afferrabile sensibilmente [etwas Sinnlich Haltbares] […] per i concetti razionali e per i fondamenti supremi».

[70] EaD AA VIII 333 ; tr. it. 247.

[71] KdU, II B XVI; tr. it. p. 10.

[72] EaD, AA VIII 333; tr. it. p. 247-248.

[73] Ivi, AA VIII 333; tr. it. p. 248.

[74] Ibidem

[75] Ivi , AA VIII 333; tr. it p. 247n.

[76] Ibidem

[77] Cfr. supra p. 3.

[78] EaD, AA VIII 334; tr. it. p. 248.

[79] Diss. AA II 399, tr. it. p. 436. Questo passo riprende quasi alla lettera il passo aristotelico Fisica, IV 10, 218a: « Si tenga presente che l'istante non è una parte: infatti la parte è misura, e il tutto deve risultare composto di parti, mentre il tempo non sembra essere composto di instanti. [… E] l'istante è un limite […].», tr. it. di Antonio Russo in Aristotele, Opere, Vol. 3, Laterza Roma-Bari 1973 (pp. 3-238), qui pp. 99-100. Ringrazio il Dott. Francesco Verde per la segnalazione.

[80] OP AA XXII 29-30; tr. it. p. 288.

[81] Cfr supra n39.

[82] Ivi, AA VIII 334; tr. it. p. 248-9.

[83] Ivi, AA VIII 334, tr. it. p. 248

[84] Ivi, AA VIII 334; tr. it p. 249.

[85] Ibidem; corsivo aggiunto.

[86] Diss. AA II 396; tr. it. p. 433.

[87] KdU, § 59, B255; tr. it. p. 186

[88] Cfr. EaD AA VIII 334; tr. it. p. 249.

[89] Ibidem

[90] Ivi, AA VIII 334; tr. it. p. 250

[91] Ivi, AA VIII 335; tr. it. p. 250

[92] Ibidem

[93] G. Giannatoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll. Laterza Bari  1969, 12B1 vol. I, p. 106-7 (tr. di R. Laurenti). Questi accenni sull’emanatismo sono tratti, secondo F. Desideri, da D. Tiedemann, Geist der spekulativen Philosophie, Marburg 1793 vol. III cap X (cfr. F. Desideri, op. cit., p. 178 n38).

[94] EaD, AA VIII 335; tr. it. p. 250.

[95] Ead, AA VIII 336; tr. it. p. 250

[96] Ibidem. Il termine può essere tradotto anche come «stoltezza»: si cfr. al riguardo da una parte la tr. it. di A. Tagliapietra in I. Kant, La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri Torino 2006, p.  34 e dall’altro la contrapposizione degli stoici fra Weisheit (saggezza) e Thorheit ricordata da Kant  in Rel, AA VI 57, tr. it. p. 59.

[97] Ivi, AA VIII 336; tr. it. p. 250-251.

[98] Ivi, AA VIII 336; tr. it. p. 251.

[99] Ibidem

[100] Ibidem

[101] Dall’utilizzo di questo termine è chiaro che Kant si riferisce qui all'etisches gemeines Wesen del III cap. della Religione che andrebbe tradotto – a differenza di Rel. e Ead - più correttamente come “corpo comune etico” (cfr. quella di Filippo Gonnelli in I. Kant, IaG, AA VIII 26; tr. it. p. 39) per distinguerlo, anche a livello concettuale, dalla comunità (Gemeinshaft).

[102] EaD, AA VIII 337; tr. it. p. 251-252. Si può notare che il problema della fondazione del corpo comune etico (etisches gemeines Wesen) è stato risolto nella Religione in maniera analoga; ma Kant continua affermando che, nonostante esso possa essere fondato solo da Dio stesso, è necessario che «l’uomo si comporti come se tutto riguardasse lui, e solo a questa condizione gli è lecito sperare che una saggezza superiore conceda il trionfo dei suoi sforzi bene intenzionati» (Rel., AA VI 100-1; tr. it. p. 108; t. m.). Possiamo dunque dire, facendo riferimento a ciò che è stato detto sopra, che in entrambi i casi Dio è l’archetipo della moralità umana inteso come ragion pura pratica, il quale può essere raggiunto dall’uomo solo dopo uno sforzo infinito.

[103] Ivi, AA VIII 337; tr. it. p. 252.

[104] Rel., AA VI 13; tr. it. p. 145.

[105] EaD, AA VIII 337; tr. it. p. 252.

[106] SF, AA VII 5; tr. it. p. 231.

[107] A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza Roma Bari 19801, 200716, p. 171.

[108] Ciò che Kant peraltro aveva già fatto nella Religione: «[il corpo comune etico] non bisogna attenderselo da una rivoluzione esteriore, che produce tumultuosamente, violentemente i suoi effetti, in gran parte dipendenti da casi fortuiti» (Rel. AA VI 122; tr. it. p. 133).

[109] EaD, AA VIII 337; tr. it. p. 252.

[110] Cfr. anche Rel., AA VI 6; tr. it. p. 7.

[111] EaD. AA VIII 338; tr. it. p. 253.

[112] Cfr. Rel., AA VI; tr. it. p. 131.

[113] Come ha giustamente sottolineato G. Cunico, “Kant e le cose ultime” in Id., Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Marietti, Genova, 1992, p. 236.

[114] KpV, A233; tr. it. p. 283. Cfr. similmente anche Rel. AA153; tr. it. p. 168; SF, AA VII 36; tr. it. p. 251 e  R 8104 AA XIX 646.

[115] Ead, AA VIII 338; tr. it. p. 253.

[116] Ibidem.

[117] Parimenti distante sia dalla «servilità d’animo» (autorità dispotica) sia dalla «insofferenza d’ogni vincolo» (anomismo o fanatismo): ibidem.

[118] Ibidem

[119] Ivi, AA VIII 338-9; tr. it. pp. 253-254; cfr. anche Rel. AA VI 162 e 134-5; tr. it. p. 178 e p. 148.

[120] EaD AA VIII 339; tr. it. p. 254.

[121] Ibidem; cfr. anche Rel., AA VI 133-4; tr. it. p. 146-8.

[122] MdS, AA VI 233, tr. it. p. 38.

[123] Kant definisce il primo come uomo considerato come avente la qualità «di essere libero» che dunque deve considerarsi «in ciò che costituisce essenzialmente in lui l’umanità, vale a dire la personalità indipendente da ogni determinazione fisica»  e il secondo come «soggetto dipendente da quelle condizioni» (Ivi, AA VI 239; tr. it. p. 48).

 

Bibliografia

Testi:

Aristotele, Fisica, tr. it. di Antonio Russo in Aristotele, Opere, Vol. 3 Laterza Roma-Bari 1973, pp. 3-238.

Alexander Gottlieb Baumgarten, Metaphysica (1779), Georg Olms Verlag Hildesheim New York 1982.

G. Giannatoni (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll. Laterza Bari 1969.

Baruch Spinoza, Etica (1662), Bompiani Milano 2008; tr. it. di Gaetano Durante

Studi:

Jean-Louis Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Aubier-Montaigne Paris 1968.

Gerardo Cunico, “Kant e le cose ultime” in Id., Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Marietti, Genova, 1992, pp. 217-245.

Fabrizio Desideri, Quartetto per la fine del tempo. Una costellazione kantinana, Marietti Genova 1991, pp. 127-188.

Augusto Guerra, Introduzione a Kant, Laterza Roma Bari 19801, 200716.

Filippo Gonnelli, Guida alla lettura della “Critica della ragion pratica”, Roma-Bari, Laterza, 1999.

Jacques Havet, Kant e le problème du temps, Gallimard Paris 1946

Pauline Kleingeld, “Kant, history and the idea of moral development”, in “History of philosophy quarterly”, vol. 16 no 1 1999, pp. 59-80

Josef Olesti Vila, “Quelques considérations sur la notion kantienne de duratio noumenon” in XI internationaler Kant Kongress, Pisa, 2010 in corso di pubblicazione.

Charles M. Sherover, “The question of noumenal time”, “Man and World” vol. 10 no 4 1977, p. 423.

Andrea Tagliapietra, “Kant e l’apocalisse”, in I. Kant, La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri Torino 2006, pp. 47-122.

Jacob Taubes, Escatologia occidentale (1947), Garzanti Milano 1997, pp.176-191.

Giorgio Tognini (a cura di), Introduzione alla morale di Kant, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.

Yirmiahu Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton University press Princeton N.J. 1980

ArthurWarda,Immanuel Kants Bücher, Martin Breslauer Veralag Berlin 1922.

 
Biblioteca virtuale: i libri sono custoditi dai rispettivi recensori ma restano a disposizione degli associati che ne facciano richiesta.

Ringraziamenti
Si ringraziano tutte le case editrici che hanno cortesemente messo a disposizione i volumi affinché potessero essere recensiti.
 
Avvertenza
I testi qui pubblicati possono essere riprodotti liberamente, per intero o in parte, purché senza alcun fine di lucro, senza alcuna alterazione e avendo inoltre cura di citare sempre la fonte e gli autori.
Ogni altro diritto sui testi qui pubblicati resta di proprietà dei rispettivi autori.
 
Mailing list